La fame affettiva: un vuoto da colmare

 

 

La fame affettiva: un vuoto da colmare

“Date parole al vostro dolore
   altrimenti il cuore si spezza”
                              Macbeth

Potremmo chiederci che correlazione esiste tra cibo ed emozioni? Perché proprio il cibo? Che tipo di messaggio veicola nella relazione con l’Altro?

Fin dalla nascita, il cibo costituisce una fonte importantissima di nutrimento fisiologico e psicologico. Nella relazione con la mamma, il bambino soddisfa 2 bisogni vitali:

  1. Senso di appagamento dato dal latte ricco di nutrienti fondamentali per la crescita fisica del bambino.
  2. Piacere dato dal rapporto unico e fusionale che si crea nel momento in cui la mamma si sintonizza con lo sguardo del bambino.

Si tratta di una relazione speciale dove madre e figlio comunicano attraverso un loro codice para-verbale costituito da sguardi, odori, rumori atto a dare vita al funzionamento psicofisico del bambino.
Basti pensare all’atmosfera che si genera durante i momenti del pasto, il clima affettivo che caratterizza quella specifica famiglia.
E’ ormai risaputo che la qualità delle primissime relazioni del bambino con i suoi genitori, determinano uno schema su cui andranno a innestarsi le sue relazioni future.
Nello specifico il cibo, diventa sia un momento di condivisione emotiva che di gratificazione fisiologica che fanno sperimentare al neonato una sensazione di pienezza globale. 

Naturalmente la disponibilità della madre è determinante in quanto rappresenta la fonte di nutrimento vitale a cui il bambino attinge. Quando lo sviluppo avviene in modo naturale, attraverso una sintonizzazione equilibrata tra le richieste del bambino e la disponibilità della mamma ad accogliere e decifrare i bisogni del suo piccolo, il bambino inizierà a distinguere sé stesso dall’ambiente materno.
La madre nutre e i suoi interventi aprono il campo alla relazione che nasce dall’incontro diretto con l’altro, con le emozioni piacevoli e spiacevoli che lo accompagnano.
Dunque, nutrimento e affetto costituiscono un binomio fondante per la strutturazione dell’identità dell’individuo.
Il piacere o il disgusto per il cibo possono confluire in differenti forme di psicopatologia che possono insorgere in particolari momenti di vita stressanti come ad esempio l’adolescenza dove il corpo è il protagonista d’elezione di questa fase; conflitti familiari, lutti ecc..
Nei disturbi alimentari l’individuo sperimenta un’ossessione nei confronti del cibo, che rappresenta un mezzo per placare la tensione interna e colmare un vuoto d’affetto.
Vi è un’alterazione dell’immagine di Sè, ed una estrema preoccupazione riguardo alle forme corporee oltre ad una dis-regolazione emotiva associata a comportamenti disfunzionali.
La ricerca mette in evidenza che questo disturbo ha rilevanti basi neurobiologiche genetiche e relazionali, per tale motivo è errato considerarla una “scelta di vita” o “una moda”.
Il passato di queste persone racchiude in sé un dolore indicibile che prende forma attraverso il corpo scarno, emaciato, cupo che vorrebbe urlare quanto sia difficile stare al mondo.
La storia emotiva nell’anoressia è tra queste, perché il malessere profondo è talmente esteso che attanaglia l’intera vita della persona che ne soffre monopolizzando i suoi pensieri.
Il cibo non è per le anoressiche negativo come cosa in sé ma è l’atto del cibarsi che rappresenta un pericolo e scatena una forte angoscia.
Le persone che sviluppano un disturbo del comportamento alimentare di solito tendono ad intrattenere pochi rapporti sociali per paura di “uscire allo scoperto”; sono donne, uomini che tendono alla perfezione sia a livello intellettuale che fisico.
All’apparenza potrebbero anche sembrare forti e determinate ma sotto la pelle nascondono una profonda paura cioè quella della “non accettazione” da parte dei loro cari.
Non vi è una percezione razionale del loro aspetto fisico; lo specchio, la bilancia tutti gli strumenti che dovrebbero far crollare quella ferma convinzione di “essere grassa” in realtà non fanno altro che alimentare l’angoscia di un “peso interiore”, un fardello troppo grande da sopportare.
Il corpo emaciato rappresenta per le anoressiche un “trofeo” da esibire ma allo stesso tempo da proteggere perché portatore di giudizi e accuse da parte della società.
Di solito queste persone non tendono a richiedere aiuto sono quasi sempre indotte dai familiari, i quali preoccupati contattano dei centri specializzati dove operano diverse figure professionali (nutrizionista, psichiatra, psicoterapeuta, educatori ecc…).
Per quanto riguarda la psicoterapia sarebbe opportuno iniziare un percorso che preveda degli incontri non solo con la persona portatrice del disagio ma anche con la famiglia.
Spesso il sintomo rappresenta un malessere più profondo da ricercare nelle relazioni con gli altri, negli schemi familiari che hanno condotto il soggetto a sviluppare il disturbo a livello psicofisico.
L’obiettivo che la terapia si pone in accordo con i pazienti che riportano tale problematica, consiste nel riconoscere il collegamento tra “l’immagine corporea” e “l’immagine mentale” attraverso la ricostruzione della propria storia personale costituita da eventi dolorosi, bassa autostima, relazioni fallimentari accompagnate da emozioni non digerite.
Nello specifico, gli elementi imprescindibili che rendono il processo terapeutico efficace sono: la collaborazione da parte della famiglia disposta a rimettere in discussione gli schemi (ruoli dei genitori, figli, aspettative, bisogni, alleanze e conflitti) che per anni hanno mantenuto l’equilibrio familiare ma che necessitano di un cambiamento.
In secondo luogo, l’alleanza tra paziente e terapeuta rappresenta la conditio sine qua non la terapia non avrebbe senso perché solo attraverso la condivisione e l’esplorazione di esperienze dolorose è possibile acquisire una nuova consapevolezza di Sé.


Riferimenti bibliografici

• Vittorio Lingiardi e Nancy McWilliams (2018), Manuale Diagnostico Psicodinamico (seconda edizione). Milano: Raffaello Cortina Editore
• Mirella Baldassarre (2002), Disturbi alimentari e Psicopatologia. Roma: Borla

 

Dott.ssa Nerina Pupillo

Psicologa clinica – Psicoterapeuta